LA TESI: La coscienza di Zeno,
di Italo Svevo, considerata per tradizione come una
descrizione di un caso di nevrosi (pur essendo per E.Weiss un
libro che "con la psicoanalisi non ha nulla a che vedere"),
ci darà modo di annotare in più di un passaggio come possa
trattarsi di una nevrosi che è spesso tentata di cedere il
passo alla perversione.
1. I CAPITOLI DEL ROMANZO
La coscienza di
Zeno è edito a Bologna, per i tipi di Cappelli, nel
1923, quando Zeno ha 62 anni (cinque anni prima della sua
morte).
Nel Preambolo, il
Dottor S., l’unico personaggio ad avere solo un nome puntato,
propone a Zeno di scrivere ciò che ricorda della storia della
sua esistenza. Di fronte a questa richiesta, Zeno si chiede
con scetticismo come possa essere possibile rivedere
l’infanzia a più di cinquant’anni di distanza (e rinuncia): «Fantolino!
- dice davanti a un bambino che è appena nato nella sua
famiglia - troppe probabilità di malattia vi sono per te,
perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri… ritenterò
domani».
Nel primo capitolo ("Il
fumo"), che potremmo intitolare "Come fumarsi
ciascuna delle ultime sigarette", Zeno parla delle sue
difficoltà a smettere di fumare. A 57 anni di età, racconta
una lunga serie di buoni propositi e di tentativi falliti
tutti legati a numeri, date in qualche modo significative.
L’ultimo tentativo consiste nel lasciarsi rinchiudere in una
clinica specialistica da cui presto riesce a fuggire
inventando uno stratagemma: alla signora posta a sua stretta
vigilanza, butta lì il fatto di essere un uomo strano che
quando fuma dieci sigarette non risponde più di se stesso a
livello sessuale. La signora, per essere ben sicura, gli fa
passare sotto la porta undici sigarette. Zeno si rende conto
che in qualche modo ha creato un impegno e decide
risolutamente di scappare dalla clinica. Così finiscono i suoi
tentativi di smetterla con il fumo.
Nel terzo capitolo,
("La morte di mio padre"), che potremmo
intitolare "Una carezza in un pugno", veniamo a sapere
che Zeno perde il padre a trent’anni. Il significato
dell’ultimo gesto del padre resterà oscuro a Zeno per tutta la
vita: dalla sua mano che cade indebolita dal male, parte
infatti sulla guancia del figlio una specie di "schiaffo".
Si è trattato di un ultimo gesto disprezzo? Di una carezza?
Zeno non saprà mai darsi una risposta.
Il quarto capitolo,
("La storia del mio matrimonio"), potremmo
rinominarlo: "Sposi per caso". Zeno ha fatto la
conoscenza del Malfenti, padre di tre figlie, i cui nomi
iniziano tutti con la lettera «A». Zeno si innamora della più
bella, la prima in ordine alfabetico, ma per l’indecisione in
cui si trova finisce con il chiedere la mano a tutte e tre:
saranno le ragazze a scegliere. Sarà la più brutta, in
seguito al rifiuto delle altre due, quella che diventerà sua
moglie.
"La moglie e l’amante"
è il titolo del quinto capitolo (ovvero: "Una
seduzione non pericolosa"). Zeno, fra le sue
attività, è anche un bene-fattore. Gli accade di incontrare
una ragazza di sedici anni: "quei 16 anni volevano la
libertà e l'amore". Perché non darglielo, proprio in virtù
del suo essere un bene-fattore? In questo modo la ragazza
diventa la sua amante.
"Storia di
un’associazione commerciale" è il sesto capitolo
(che potrebbe essere sottotitolato: "Lavorare stanca").
Se lavorare stanca, meglio fallire. Come da programma,
l’associazione commerciale in cui Zeno si è impegnato
fallisce.
Alla "psicoanalisi"
è dedicato l’ultimo capitolo (che intitolerei: "Come
fare felice il proprio analista"). La principale
preoccupazione di Zeno non è infatti guarire, ma raccontare
all’analista cose carine che gli possano piacere.
2. ALCUNI LEMMI DE "LA
COSCIENZA DI ZENO"
Svevo scrive La coscienza
di Zeno nel 1923, l’anno precedente aveva iniziato una
traduzione dell’Interpretazione dei sogni.
Nell’individuare i temi del libro, ho cercato di costruire un
lemmario, di cui annoterò le parti più significative.
Corpo
La prima parola è corpo, che
nel libro diventa organismo e che addirittura viene definito
come «la macchina mostruosa». Zeno incontra Tullio, un
vecchio amico claudicante a causa di reumatismi mai curati:
"Mi raccontò ridendo che quando si
cammina con passo rapido, il tempo in cui si svolge un passo
non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si
muovevano niente meno che 54 muscoli. Trasecolai e subito
corsi con il pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina
mostruosa. Io credo di avercela trovata."
Da quell’incontro Zeno esce zoppicando e
il camminare gli diventerà difficile per tutta la vita, fino a
definire il camminare come «un lavoro pesante». Se
questo non bastasse, attribuisce la colpa di questa lesione
non a se stesso, ma al fatto di essere innamorato di Ada, «perché
si sa che gli animali diventano preda dei cacciatori quando
sono in amore». Mi sembra che questi pensieri mostrino non
una regressione, ma una retromarcia da corpo a organismo. Non
mi sembra di poter parlare di regressione, perché in realtà
non si torna all’organismo antecedente al corpo pulsionale,
ma, come dice Freud, a un organismo non percepito secondo le
vere innervazioni.
È interessantissimo
l’esempio della mosca: infastidito da una mosca sul tavolo,
Zeno la colpisce e la ferisce a una zampa. Nota poi che la
mosca prova a volare agitando concitatamente le ali. Dice
allora: «Era convinta di essere ferita all’ala, non alla
zampa». L’insetto commette un errore stupido: «Non sa
da quale organo viene il suo dolore. Errori che si possono
facilmente scusare in un insetto, che vive una sola stagione e
non ha tempo», ma che Zeno, un uomo, commette allo stesso
modo: nel corso di tutto il suo racconto non è in grado di
distinguere quale sia veramente il punto in cui è ferito.
Sempre parlando del dolore,
Zeno allude al convivere con la malattia: «Quel dolore non
mi abbandonò più. Adesso nella vecchiaia ne soffro meno,
perché lo sopporto con indulgenza» che sta a dire: tutti i
sintomi nevrotici vengono accettati e vissuti con indulgenza.
Annota ancora: «Senza saperne
spiegare l’intima natura, io so quando il mio dolore per la
prima volta si formò». Dice per la verità di aver
consultato anche molti medici che gli hanno dato diverse
interpretazioni sull’origine del dolore: «… interpretazioni
accettabili, perché da me nessuna funzione è idealmente
perfetta». Significa dunque: qualunque ipotesi fatta da un
medico può essere quella buona.
Un altro passaggio
importante sul tema corpo-organismo è la discussione con
alcuni amici tra malattia reale e malattia immaginaria. Come
in certi film o fumetti le ferite e la morte non sembrano
procurare dolore, Zeno arriva ad affermare che l’ammalato
reale soffre molto meno dell’ammalato immaginario. Ricordando
un amico che aveva un mal di denti poi rivelatosi essere una
nefrite, annota:
"C’è un metro di distanza fra i reni
e i denti. Quindi si capisce come anche un ammalato
immaginario possa legittimamente dolersi di una malattia che
potrebbe anche sorgere a chilometri di distanza."
Potrebbe somigliare a un concetto di
psicosomatica.
Mi sembra risulti abbastanza chiaro
l’impossibile ritorno all’organismo.
Donna
"… della mia miseria con le donne.
Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte! Per
istrada la mia agitazione era enorme: come passavano, le donne
erano mie. Le squadravo con insolenza per il bisogno di
sentirmi brutale. Nel mio pensiero le spogliavo, lasciando
loro gli stivaletti…
… la donna a me non piaceva intera,
ma… a pezzi. Di tutte amavo i piedini, se ben calzati. , di
molte il collo esile oppure anche ponderoso e il seno se
lieve, lieve. E continuavo nell’enumerazione di parti
anatomiche femminili…"
Sembra abbastanza chiaro che
si tratta di feticismo.
In un altro passaggio il feticismo
riguarda non le parti del corpo dell’altro, ma del proprio
corpo. In una certa pagina Zeno annota che baciando o toccando
sua moglie o altre donne, esse arrossiscono. Dice:
"Amo quella parte del mio corpo che è
stata capace di suscitare un tale rossore."
Va osservato che Svevo non usa mai la
parola «eccitamento»: al suo posto parla del rossore della
vergogna. In un’altra occasione volutamente tocca il piede di
una delle tre sorelle; a distanza di tempo ricorderà che il
suo piede è stato l’oggetto dell’intimo momento con quella
donna.
Figlio
Zeno liquida in poche righe
il suo rapporto con la madre:
"Mia madre era morta quand’io avevo
quindici anni. Feci delle poesie per onorarla ciò che mai
equivale a piangere e, nel dolore, fui sempre accompagnato dal
sentimento che da quel momento doveva iniziarsi per me una
vita seria e di lavoro."
Cosa mai fatta.
"Per la morte di mia madre e la
salutare emozione ch’essa m’aveva procurata, tutto da me
doveva migliorarsi."
Più ampiamente si dilunga invece su «figlio
del padre».
"Invece la morte di mio padre fu una
vera, grande catastrofe. […] Lui morto non c’era più una
dimane ove collocare il proposito."
Non c’era più un altro giorno.
"Io, accanto a lui io, rappresentavo
la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella
debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una
diminuzione."
La catastrofe sta nell’aver perso la
debolezza del padre con cui si poteva sentire forte.
"Egli mi confessò che una delle
persone che più lo inquietavano ero io. Egli aveva saputo
eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa
macchina che è il corpo umano. Per lui non era importante
pensare che il cuore pulsava, valvole, vene, ricambio, per
spiegare come il suo organismo viveva. Egli mi rimproverava
due altre cose: la mia distrazione e la mia tendenza a ridere
delle cose più serie."
Scherzare del resto è quanto continuerà
a fare per sempre. Un suo amico era appena morto e Zeno, a
pranzo con gli altri commensali, gioca a dire: «È
morto… No, non è vero che è morto… Vi ha preso in giro tutti…
No, però è morto».
A proposito del padre è
interessante l’interpretazione, patologica, che Zeno dà di un
certo avvenimento. Una sera Zeno torna tardi e scopre che il
padre lo ha atteso per cenare. Gli chiede: «Perché hai
atteso finora per mangiare? Potevi mangiare e poi attendermi».
Il padre ride: «Si mangia meglio in due». Zeno pensa
allora che «questa lietezza poteva essere anche il segno di
un buon appetito». È la prova che ciò di cui Zeno è
incapace è il rapporto.
Più oltre, spinto da puro
affetto filiale, Zeno desidera la morte del padre che viene
poi descritta in questo modo: l’uomo ha una crisi, si chiama
il dottore, che constata la gravità della situazione, ma si
offre di prodigarsi in un tentativo per salvarlo. È Zeno a
rifiutarsi e a invitarlo a lasciarlo morire in pace. Il
dottore presta ugualmente le sue cure al malato, accusando
Zeno di essere egoista. Per qualche tempo il padre riprende un
poco della sua lucidità, ma Zeno si dimostra molto arrabbiato.
Pensa a se stesso e dice:
"Io avrei avuto bisogno di un grande
riposo per chiarire il mio animo e anche regolare, e forse
assaporare, il mio dolore per mio padre e per me. Invece ora
devo lottare, lavorare per accudirlo. E la lotta produce
sempre dell’odio."
Zeno ricorda poi lo schiaffo
ricevuto dal padre. L’uomo è gravissimo. Il medico gli ha
consigliato di stare a letto il più possibile, ma l’uomo non
vuole sentire ragione. Appena riesce a sottrarsi allo stretto
controllo del figlio, si alza di nuovo, solleva il braccio e
lo lascia cadere pesantemente sulla guancia del figlio, prima
di cadere a terra e spirare.
L’episodio può essere messo in relazione
con la morte di Malfenti, il suocero di Zeno, che egli
considera come il suo «secondo padre». Morendo,
Malfenti dice a Zeno: «Ti darei volentieri la mia malattia.
Non ho mica le ubbie umanitarie che hai tu!»: si tratta di
quello che comunemente viene detto furor sanandi, il
furor di bene, la coazione a fare il bene. Correggiamo
questa affermazione dicendo che il bene non si tratta di
farlo, ma di riceverlo. A Zeno invece questa frase appare come
una carezza, proprio all’opposto dello schiaffo ricevuto dal
padre-padre. Solo più oltre, mettendo in relazione i due
episodi, Zeno spera che anche quella del padre sia stata una
carezza: Una carezza in un pugno, come recitava una
vecchia canzone di Celentano. Dopo la morte di Malfenti
"Alla sua tomba, come tutte quelle su
cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di
me stesso che vi era sepolta. Quale diminuzione per me venire
privato anche di quel mio secondo padre!"
Il suo dolore conduce Zeno a
una decisione: se avrà dei figli, cercherà di fare in modo che
non lo amino, così che non soffrano alla sua morte.
Imputabilità
"Mi verrebbe voglia di credere anche
nel destino". Questa frase pronunciata da Zeno mi sembra
dire ciò che Svevo pensa intorno a questo tema.
In tutto il romanzo solo una
frase, collegata al senso di colpa, lascia trasparire un
barlume di imputabilità. Dice Zeno:
"Dolermi come il ricordo di un
crimine vigliacco, come un tradimento commesso per libera
elezione, senza necessità e senza alcun vantaggio."
Il romanzo mostra
l’eliminazione sistematica di ogni imputabilità individuale: «Non
so scegliere le mie compagnie, perché sono loro che scelgono
me»; «Trovo sempre dei pretesti per far quello che
sarebbero i miei desideri»; «Tutte le volte che penso
al mio primo tradimento, ho il sentimento di averlo compiuto
perché trascinatovi»; «In quella casa mi prospettavano
di congiurare bassamente ai danni di Guido», l’uomo che a
suo avviso gli ha rubato Ada, la sorella «bella» di cui
era innamorato; «Andai da Carla - l’amante - senza
ricordare Augusta - la moglie - tanto mi aveva offeso il
contegno di mio suocero»; «Ero contento che per sua
decisione, l’avventura che io avevo cercata mi venisse offerta
nella forma di un’amicizia - così crea meno sensi di colpa
- condita di baci»; «Non la morte desiderai, ma la
malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare
quello che volevo, oppure che me lo impedisse»; «Finsi
la malattia, quella malattia che doveva darmi la facoltà di
fare, senza colpa, tutto quello che volevo»: «Io fra me
e me bestemmiavo, ma già sapevo di essere stato solo un
giocattolo in mano alle forze sregolate della natura. Insomma,
dipende dal caso. La legge naturale non dà diritto alla
felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore». Sono
solo alcuni esempi. Su questa scia si colloca anche la scelta
della moglie, cui abbiamo già accennato. Zeno va dalla prima
figlia: «Vuoi sposarmi?», le chiede. «No», è la
risposta. Allora va dalla seconda: «Scusa, dato che lei mi
ha detto di no, tu vorresti dirmi di sì?». Ottiene la
medesima risposta: «No». Zeno si presenta allora alla
terza sorella: «Mi hanno detto di no in due e io sono molto
infelice. Tu cosa mi dici tu?». La terza acconsente e così
si sposa. Si direbbe un matrimonio «combinato»,
combinato dal destino.
Soggetto-Altro
In un passo il rapporto
Soggetto-Altro è descritto così:
"… una gabbia in cui non v’era altro
che una merce e due nemici, i due contraenti."
Il massimo che Zeno riesce a fare nel
rapporto è parlare con Augusta della sua paura della morte per
averne il conforto come fanno i bambini che porgono al bacio
della mamma la manina ferita.
Appuntamento
«Non sarebbero mica
avvenute delle grandi cose, se io non mi fossi presentato
all’appuntamento».
Lavoro
Zeno non lavora: «Vivevo
in una simulazione di attività, che è una cosa noiosissima».
«L’Olivi - l’uomo che si occupa di amministrare l’eredità
paterna - ha lavorato e lavora per me», per giungere a una
conclusione: «Lo odio, perché mi ha impedito di fare il
lavoro che fa lui».
Dal giorno dell’inizio della sua relazione con la
giovane amante, Zeno si tiene sempre nella tasca della giacca
una busta piena di soldi, a cui aggiunge altro denaro per
tutto il tempo in cui dura questa storia. Zeno la chiama «la
busta dei buoni propositi, quella che serve per pagare
l’indulgenza». Se è il bene-fattore di questa ragazza, un
giorno questi denari andranno a lei. È molto diverso dal gesto
con cui si paga una prostituta: Zeno è troppo puro per pensare
una cosa del genere. Perché Zeno deve concepirsi come un
bene-fattore? Se non lo fosse, quello con Carla diventerebbe
un rapporto! |